“Era un modo particolare che avevamo qui di vivere con noi stessi: li facevamo a brandelli con una mitragliatrice, poi gli offrivamo i cerotti.”

Trama: Siamo nel 1969, in piena guerra del Vietnam. Il capitano Benjamin L. Willard, ufficiale dell’esercito americano, viene incaricato dal generale Corman e dal colonnello Lucas di risalire il fiume Nung fino alla Cambogia. È una missione segreta nella quale il protagonista dovrà scovare e uccidere il colonnello Walter E. Kurtz: un uomo misterioso, ribellatosi all’autorità dell’esercito, immerso in una giungla e adorato come un dio dagli indigeni del luogo.
Analisi: Non a caso ho aperto questa recensione con una citazione, forse una delle più significative. L’ipocrisia della guerra viene messa in primo piano assieme all’orrore, vero tema portante di tutto il film. È proprio quel rovescio della medaglia, il volto nascosto e ipocrita della guerra, a nutrire l’orrore di Walter Kurtz e, nella stessa misura, del capitano Benjamin Willard.
Durante la sua scalata, perché di questo si tratta, una scalata alle origini dell’orrore, il capitano Willard legge e studia la mente di Kurtz attraverso la sua vita, i suoi affetti e i suoi successi sul campo di battaglia. Kurtz è un uomo brillante, un eccelso stratega che matura una sua visione della guerra e della componente umana. Secondo la sua filosofia, un soldato deve avere in sé l’orrore e mantenere al contempo la propria umanità, per essere un perfetto guerriero. Com’è possibile unire queste due contraddizioni?
Il colonnello Kurtz lo esprime attraverso un aneddoto di guerra vissuto in prima persona:
“Ricordo, quand’ero nelle forze speciali, sembra migliaia di secoli fa. Andammo in un campo, per vaccinare i bambini. Lasciammo il campo dopo aver vaccinato i bambini contro la polio. Più tardi venne un vecchio a richiamarci, piangeva, era cieco.
Tornammo al campo, erano venuti i Vietcong e avevano tagliato ogni braccio vaccinato. Erano là in un mucchio, un mucchio di piccole braccia e mi ricordo che ho pianto come, come, come un madre.
Volevo strapparmi i denti di bocca, non sapevo quello che volevo fare. E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo.
Poi mi sono reso conto, come fossi stato colpito, colpito da un diamante: una pallottola di diamante in piena fronte e ho pensato: “Dio mio, che genio c’è in questo! Che genio! Che volontà, per fare questo! Perfetto, genuino, completo, cristallino, puro!
E così mi resi conto che loro erano più forti di noi, perche loro lo sopportavano. Questi non erano mostri, erano uomini, quadri e addestrati. Uomini che combattevano col cuore, che hanno famiglia, che fanno figli che sono pieni d’amore, ma che avevano la forza, la forza di far questo. Se io avessi dieci divisioni di questi uomini, i nostri problemi qui si risolverebbero molto rapidamente. Bisogna avere uomini con un senso morale e che, allo stesso tempo, siano capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passione, senza discernimento. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge.”
In una certa misura, il film sembra voler mettere in luce l’esigenza degli esseri umani di esprimere l’orrore. Orrore visto come sentimento umano al pari dell’amore e dal quale l’uomo non può dissociarsi. Come in un paradosso, senza l’orrore, l’uomo perde la propria umanità. Allegoriche in questo senso le scene finali, dal momento in cui il capitano Willard raggiunge il luogo in cui vive Kurtz, nel villaggio degli indigeni. Cadaveri e bambini vivono a stretto contatto, sorridono, i secondi, come se fossero a casa, mentre i primi, esanimi, dissanguati, finiscono per essere parte dell’habitat. Metafora dell’uomo che deve necessariamente convivere con il proprio orrore, per definirsi tale.